Forlì e la vita in piazza Aurelio Saffi tra street photography e identità urbana

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Forlì e la vita in piazza Aurelio Saffi tra street photography e identità urbana
In piazza Aurelio Saffi a Forlì, la vita scorre tra passi, sguardi e storie che si incrociano. In questo scatto di street photography racconto una donna di spalle con una maglietta che unisce ribellione e poesia: “Bukowski Old Punk”, scritto anche in katakana giapponese, simbolo di una cultura globale che si intreccia con la quotidianità italiana.

Tabella dei Contenuti

Ci sono città che impari ad ascoltare prima ancora di fotografarle. Forlì, per me, è una di quelle città che parlano a bassa voce ma in modo chiarissimo, soprattutto quando entro in piazza Aurelio Saffi, che è molto più di una piazza: è una stanza grande con il soffitto aperto sul cielo, qui Forlì si dà appuntamento per iniziare la giornata, per salutarsi, per aspettare qualcuno o semplicemente per far passare il tempo.

Quando cammino qui, sento che tutto converge: le strade, gli sguardi, le storie. Ed è questo incrocio continuo a rendere la piazza di Forlì un soggetto irresistibile per chi, come me, ama raccontare la vita con la macchina fotografica.

Il centro nevralgico della città

La prima volta che ho messo piede in piazza Saffi a Forlì sono rimasto colpito dalle proporzioni: è ampia, luminosa, ventilata, con gli edifici che si guardano da lati opposti come vecchi amici abituati a riconoscersi. Ai margini scorgo biciclette appoggiate ai portici, il viavai degli autobus, le voci dei ragazzi che escono dalle scuole, il passo più rapido di chi va al lavoro e quello più lento di chi può permettersi una mattina senza impegni. Al centro, lo sguardo di Aurelio Saffi sembra misurare il ritmo della piazza, tra memoria risorgimentale e presente fluidissimo.

Di piazze italiane ne abbiamo tante e bellissime, ma qui a Forlì l’effetto è particolare: la storia architettonica stratificata – medievale, ottocentesca, razionalista – non è un semplice fondale; è un contrappunto discreto che accompagna la quotidianità. E la quotidianità, in fotografia, è oro: cambia di minuto in minuto, non si ripete mai, non ha bisogno di effetti speciali.

Luogo di incontro e di passaggi quotidiani

A restituire davvero il carattere della piazza sono le persone. C’è chi taglia in diagonale per guadagnare pochi secondi, chi segue il perimetro all’ombra dei portici, chi sceglie la linea retta della luce di mezzogiorno. In pochi metri riconosco micro‐storie che durano il tempo di un semaforo: il commesso che porta un vassoio di caffè, la signora con la borsa della spesa che cerca il bus, gli amici che si danno appuntamento “sotto Saffi”, gli studenti che improvvisano un cerchio per commentare l’ultimo esame. È un teatro spontaneo, e io mi limito a scegliere la fila, il posto e l’istante in cui alzare la macchina agli occhi. Questa è Forlì.

La cosa che mi colpisce, ogni volta, è come il movimento collettivo non cancelli mai l’individuo. La piazza vive perché le persone le danno un ritmo, ma ognuno mantiene il proprio: è questa la materia prima della street photography, il punto esatto in cui la città e le singolarità si toccano.

L’importanza dei luoghi di aggregazione nelle città multietniche

Viviamo in città sempre più multietniche, e lo dico nel senso più bello e concreto del termine: basta restare dieci minuti in piazza Saffi a Forlì per ascoltare idiomi diversi, vedere stili differenti, percepire abitudini che arrivano da lontano e qui si sono adattate, senza perdere la loro radice. La piazza più famosi di Forlì, in questo, funziona come un laboratorio sociale quotidiano: un luogo dove la convivenza si esercita nella pratica – nello scambio di precedenze, in una panchina condivisa, in una richiesta di informazioni – molto più che nei discorsi.

Da fotografo, ma prima ancora da camminatore curioso, credo che gli spazi pubblici come questo siano la cura migliore contro la solitudine metropolitana. Stare insieme senza doversi conoscere è un atto semplice e potentissimo: ci ricorda che apparteniamo a una stessa scena, anche quando il copione è diverso per ciascuno. Le piazze italiane hanno questa dote antica: sanno accogliere. E quando un luogo accoglie, la fotografia scorre da sé, perché l’umanità si mostra senza irrigidirsi.

La street photography come linguaggio

La street photography è il mio modo preferito di scrivere di una città. Non prepara il set, non trucca i personaggi, non sistema la luce: ascolta, osserva, anticipa. La sfida è tutta lì, tra pazienza e prontezza. Bisogna prevedere il gesto mezzo secondo prima che accada e, al tempo stesso, accettare che molte cose non torneranno più. Non c’è ripresa due; c’è la prima e unica.

Nella street mi piace lavorare spesso in bianco e nero. Non è una scelta nostalgica; è un modo per separare l’essenziale dal superfluo, togliere distrazioni cromatiche e far emergere forme, contrasti, ritmi. In piazza Saffi a Forlì, con le sue pietre chiare e le sue ombre lunghe, la scala dei grigi diventa un pentagramma su cui scrivere la melodia dei passaggi umani.

Perché fotografare una persona di spalle

Capita spesso che io scelga di fotografare di spalle. Non è un escamotage per schivare uno sguardo, è una decisione narrativa. La figura che non mostra il volto diventa meno “questa persona” e più tutti noi: è un invito a entrare nella scena, a metterci dentro la nostra storia. In più, il corpo di spalle racconta moltissimo: postura, andatura, tensione, abbigliamento, relazione con lo spazio.

Nel caso dello scatto di oggi a Forlì, il soggetto – una donna con passo deciso e una borsa a tracolla – portava sulla schiena una maglietta che da sola accendeva la fotografia. Sulla parte alta, in caratteri giapponesi, e subito sotto in inglese, la scritta: “BUKOWSKI OLD PUNK”. Ho sentito che la scena era tutta lì: un’affermazione di identità culturale esibita senza urlare, il messaggio come motivo grafico nel paesaggio della piazza.

Katakana e fonetica: quando il giapponese “suona” l’inglese

La riga in alto recita: ブコウスキー・オールドパンク. Traslitterata in alfabeto latino diventa Bukōsukī ōrudo panku. È una trascrizione fonetica in katakana, il sistema di scrittura giapponese usato per le parole straniere, i nomi propri e gli effetti sonori. Il katakana non “traduce” l’inglese: lo trasferisce in sillabe giapponesi cercando di riprodurne il suono con i segni disponibili. Così “Bukowski” diventa “Bu‐ko‐u‐su‐kī”, “old” diventa “ō‐ru‐do” e “punk” suona “pan‐ku”.

Questa pratica è diffusissima nel design, nella pubblicità e nella moda giapponese, e negli ultimi decenni è stata abbracciata anche dall’estetica street internazionale. Il motivo è chiaro: il katakana ha una grafia spigolosa e moderna, si legge come un codice, aggiunge un strato visivo al significato originario inglese. Quando lo vedi stampato su una maglietta, non stai solo leggendo una frase, stai guardando una texture tipografica che porta con sé il fascino dell’altrove. Nel nostro scatto, l’abbinamento tra Bukowski (sinonimo di realismo crudo e ribellione letteraria) e “old punk” (attitudine che rifiuta l’allineamento) cambia ritmo proprio grazie a quelle sillabe giapponesi: il messaggio resta lo stesso, ma risuona diversamente.

Come ho scattato: attrezzatura e impostazioni

Per questa foto scattata a Forlì ho usato la Fujifilm X-T3 con l’obiettivo XF 18-135mm F3.5-5.6 R LM OIS WR. Ho lavorato a ISO 160, una scelta che sulla X-T3 mi garantisce la massima qualità del file e una gamma dinamica pulita. La focale è 122 mm equivalenti su APS-C: mi permette di comprimere leggermente la scena e isolare il soggetto dallo sfondo senza perdere il respiro della piazza. Ho impostato f/5,6 per avere nitidezza sul soggetto e uno sfocato abbastanza morbido dietro; il tempo di 1/500 s mi assicura che il passo della donna resti fermo, senza micro‐mosso, nonostante io scatti a mano libera e in movimento.

L’OIS dell’ottica mi aiuta a mantenere stabilità quando eseguo piccole ricomposizioni. Lavoro in manuale con priorità al tempo solo quando serve congelare l’azione; qui ho preferito una gestione completa per tarare esposizione e profondità come volevo, rimanendo a 0EV perché la luce diffusa non mi costringeva a compensazioni. Ho visualizzato in monocromatico già in camera per concentrarmi su tono e contrasto; il RAW, comunque, conserva tutte le informazioni colore e mi consente di rifinire in post senza perdita.

La descrizione della foto

Nell’immagine la protagonista occupa il terzo centrale, ripresa di spalle mentre attraversa la piazza. Il passo è deciso, le spalle in avanti, i capelli raccolti con una clip metallica che riflette un piccolo lampo. La maglietta nera diventa un pannello perfetto per la tipografia: in alto il katakana, sotto la scritta in inglese, entrambe nitidissime grazie alla focale lunga e al tempo rapido. A destra scende la tracolla della borsa, un segno obliquo che bilancia l’orizzontalità della pavimentazione.

Lo sfondo racconta che siamo in una piazza viva: riconosci sagome in movimento, una bicicletta ferma, figure sfocate che attraversano la scena, colonne e vetrate che fanno da cornice. La profondità di campo separa dolcemente il soggetto dal contesto, ma non lo isola: la donna è parte dell’ambiente, ne porta letteralmente addosso il messaggio culturale. Il bianco e nero esalta la grana della pavimentazione e i contrasti della maglietta, trasformando la scritta in un mantra grafico che attira lo sguardo prima ancora che la mente legga.

Guardandola a posteriori, riconosco quello che cerco spesso nella street: un istante ordinario che diventa racconto universale. Nessuna posa, nessuna richiesta, solo la città che si muove e noi che la intercettiamo per un attimo.

Perché questo scatto parla di Forlì

Potrei realizzare una foto simile in molte città, è vero, ma a Forlì capita una cosa particolare: la scala della piazza, il respiro degli spazi e il ritmo dei passaggi danno al gesto quotidiano una dignità quasi scenica. Qui, la frase “old punk” non è una provocazione gridata; è un sussurro deciso che scivola nel grande respiro romagnolo fatto di concretezza e ironia. È come se la piazza dicesse: “Ognuno il suo stile, ma tutti dentro la stessa vita”. E questo messaggio, per me, vale più di qualsiasi skyline patinato.

Un invito a camminare e guardare

Se passi da Forlì, ti consiglio di concederti tempo in piazza Aurelio Saffi. Cammina, siediti, cambia punto di vista. Non cercare solo l’immagine perfetta: cerca la storia che si appoggia a un gesto minimo, a un dettaglio, a una scritta sulla schiena di qualcuno che non conosci e che non conoscerai mai. È lì che la street photography diventa davvero un linguaggio: quando ti permette di sentire vicino ciò che è di tutti.

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